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venerdì 19 febbraio 2016

Messengers - Starwolf – Pt. II: Novastorm (2015)

Anticipato dal pregevole EP “Captain’s Loot”, sul finire del 2015 i power metallers tedeschi Messengers irrompono nuovamente sul mercato discografico, pubblicando questo interessante “Starwolf – Pt. II: Novastorm”, naturale prosieguo musicale del notevole “Starwolf – Pt. I: The Messengers”, rilasciato nel 2013 sempre per la fedele Massacre Records.
L’album precedente aveva permesso alla band di raccogliere notevoli soddisfazioni. Per questa ragione, anche il nuovo album si muove sulle stesse coordinate musicali, ormai tipiche del combo teutonico, senza tuttavia scadere nella ripetizione di idee già ascoltate nei dischi precedenti.
La regalità insita nel sound dei Messenger è subito espressa dalla potente “Sword Of The Stars”, opener fiera e maestosa nel suo incedere operistico, così come anche rabbiosa e granitica nel suo sviluppo, comunque elegante nei riff macinati dalle due asce, nonché melodica in un refrain cadenzato e massiccio, che ne garantisce l’ottimo valore complessivo.
Non tradendo la fede del power metal guerresco, i nostri incastonano la dirompente “Privateer’s Hymn”, inno piratesco e battagliero, caratterizzato da velocità scandite e controllate da un sezione ritmica impeccabile, sulle quali si adagiano le squisite melodie chitarristiche e vocali, che sembrano voler rievocare il classico stile di gruppi come Running Wild ed Alestorm.
Leggeri echi dei migliori Metallica (quelli dell’epoca di “Ride The Lightning” in questo caso), rendono oscura l’atmosfera della successiva “Wings Of Destiny”, che dopo pochi istanti non tarda ad esplodere nuovamente con tutta la carica del power tipicamente tedesco. Anche in questa occasione un ritornello semplice e melodico riesce appieno nel compito di mantenere viva l’attenzione del fruitore.
Più rilassata e sognante risulta invece essere la pacata “Frozen”, volta rendere maggiormente dinamica la proposta musicale dei Messenger, che pochi minuti più tardi tornano su rocciosi sentieri con la feroce “Novastorm”: prelibato episodio di puro power metal, completamente controllato dall’eccellente lavoro chitarristico affidato a Patrik Deckarm e a Frank Kettenhofen. Anche in questo frangente il combo germanico non disdegna di dimostrare la propria devozione verso gli insegnamenti ricevuti dai connazionali e storici Running Wild.
La furia della band non concede tregua nella potente “Pleasure Synth”, seguita a ruota dalla rasoiata piratesca di “Captain’s Loot” (curiosamente non inclusa nell’EP apripista, sebbene correlato dal medesimo titolo).
La band torna poi a viaggiare su velocità elevate con la diretta “Warrior’s Ride”, caratterizzata ancora dalle ottime armonie vocali condotte dall’aspra e carismatica voce del bravo Francis Blake.
La successiva “Wild Dolly”, mostra un approccio maggiormente Hard Rock di stampo ottantiano, risultando molto piacevole e spianando la strada alla lunga “Fortress Of Freedom”, caratterizzata da un coro epico ed incisivo.
A concludere l’opera nella versione Digipak, arrivano poi la piacevole e ancora Rockeggiante “Keep Your Dreams Alive”, abile nell’alternare fasi arpeggiate ad altre maggiormente heavy e la buona “In Morgan We Trust”, entrambe incluse nell’album come bonus tracks, in grado di aumentare il valore di un lavoro che conferma la classe di una band forse non molto conosciuta dal grande pubblico, ma assolutamente da  tenere d’occhio.


Genere: Power Metal
Paese: Germania
Qualità: 320 kbps


TRACKLIST

01. Sword Of The Stars
02. Privateer's Hymn
03. Wings Of Destiny
04. Frozen
05. Novastorm
06. Pleasure Synth
07. Captain's Loot
08. Warrior's Ride
09. Wild Dolly
10. Fortress Of Freedom 



 
 

giovedì 18 febbraio 2016

Kampfar - Profan (2015)

La perfezione è un’utopia che in molti cercano di delineare lungo la vita attraverso l’idealizzazione di un raggiungimento conoscitivo, sociale, culturale e/o artistico. I Kampfar giungono al traguardo del settimo album con un’invidiabile successo: una discografia inattaccabile che rasenta quell’utopica perfezione accennata poco fà. Se la dipartita nel 2010 di Thomas aveva fatto perdere un pizzico di interesse da parte dei fans, quelli affezionati più alla persona che al progetto in quanto tale, l’approccio compositivo del gruppo non è mutato di una sola virgola e l’anno successivo Mare aveva fatto esplodere applausi a scena aperta, confermando quanto di buono ci sia nel gruppo piuttosto che nel singolo. A discapito di una costante avanguardia sonora (concedetemi il termine volutamente forzato) pur non avendo mai stravolto il circuito underground, non avendo nemmeno mai creato l’album perfetto al cristallino i Kampfar da sempre risultano inattaccabili sotto ogni aspetto; mai un album uscito “male”, mai un calo di creatività e sopra ogni cosa mai deluso le aspettative dei propri fans, che ad ogni capitolo, rimangono a bocca aperta per la qualità riscontrabile su ogni singola composizione.
Certamente ripresentarsi sul mercato ad un anno o poco più di distanza dal precedente Djevelmakt è azzardato; tutti noi sappiamo che per avere un minimo di credibilità e di ispirazione un ciclo vitale che porta al compimento di un nuovo traguardo necessita di tempo ed attenzione, che equivale a due o tre anni vitali se in mezzo ci mettiamo il/i tour promozionale/i che sono necessari al mantenimento in vita di un gruppo. Profan nasce dalle ceneri di Djevelmakt implementando e migliorando la proposta, ponendosi probabilmente al di sopra ti ogni album composto da qui a Kvass. Esageriamo? Ascoltare per credere.
Sappiamo perfettamente che il sound dei Kampfar oggi è meno violento e oltranzista rispetto al primo periodo, sappiamo ancora meglio come le tecnologie moderne e le influenze che vanno ad inserirsi in questo o quel contesto culturale-musicale modellano i risultati finali in maniera più o meno preponderante. Proprio per questo i Norvegesi sono identificabili a livello metaforico come una spugna, dove più assorbono esperienza, sfumature e visioni differenti; più queste vengono afferrate e fatte proprie senza andare contro la coerenza che sta alla base del progetto più si può optare per il concetto di "progressione sonora". Studiare, analizzare, comprendere e successivamente migliorarsi; questo è il processo che costruisce le fondamenta della band; questo concetto semplice è “piccolo” ma abbastanza perché se applicato a questo caso specifico faccia comprendere quanto i nostri meritino rispetto incondizionato.
Profan ci viene introdotto da Gloria Ablaze, una canzone centrata in ogni minimo dettaglio con quella partenza in quinta con un riff maligno ed inattaccabile che lascia spazio man mano ad una atmosfera glaciale e nordica come solo i Kampfar riescono a creare, attraverso cori ed aperture di altissima qualità con il trade-mark stampato sopra a fuoco. Come riscontrabile in molti passaggi lungo la tracklist sono le clean vocals a donare l’effetto sorpresa, pur non essendo una novità, risultando avvincenti e azzeccate al 100%; senza questo specifico tocco di “epicità norrena” avremmo ipoteticamente avuto solamente brani zoppicanti, ma qui sbagliare è impossibile. La scaletta si snoda attraverso canzoni che hanno una loro precisa identità, ognuna di queste ha valore e senso di esistere, anche nei casi paradossali come la Titletrack e Pole in the Ground che possono essere definite “standard” per il gruppo, si riesce inevitabilmente a lasciare un segno indelebile confermando il certificato D.O.P..
Lo sguardo rivolto a nuove sperimentazione viene piuttosto sottolineato dalle magistrali Icons, Skavank e Daimon, un trittico al limite del comprensibile che innalza Profan da buono ad altisonante. La prima viene aperta da un leggero andante orchestrale prima di sfociare in una rabbia assassina pura e ferale, dove la parte centrale lascia intravedere sprazzi dei primi Gorgoroth e dei Taake che furono, combinati con Enslaved e Windir di un tempo oramai dimenticato poggia le basi nel remoto per innalzarle a futuro prossimo. Skavank dalla sua, attraverso i lunghi sette minuti e mezzo, ha la capacità di lasciarsi scoprire ascolto dopo ascolto, una rasoita nello stomaco che diventa il sussurro contemporaneo dei Mayhem che oggi tutti rimpiangiamo: inutile girarci intorno da 3:40 circa l’eco di De Mysteriis Dom Sathanas è palese, non prendiamoci in giro ragazzi.
Fortuna e sfortuna dei nostri è il venire dopo, ma omaggiare contemporaneizzando con questa classe è da applausi. Daimon, il singolo che ha lanciato i Kampfar sul loro primo video promozionale, è qualcosa di sublime, talmente evocativo lento e sinistro che spesso e volentieri viene da girarsi con la paura che qualcuno alle tue spalle sia li a osservarti nell’ombra. Il clean vocal magistralmente eseguito e la combustione degli intenti con le sovrastrutture create ha dello straordinario, da ascoltare in rigoroso silenzio senza perderci altre parole in merito. La parabola si chiude con Tornekratt che da descrivere risulterebbe più difficile che altro; cinque minuti di disperazione, urla e l’evocazione di un male interiore come in pochi riescono a tramutare in musica. Pare un ritorno al passato con gli stratagemmi di oggi amplificati e tolti dalle catene di un’incapacità compositiva primordiale; il brano perfetto per chiudere un album al limite dell’impeccabile.
Sovrastato da una cover magnifica creata dal genio di Zdzisław Beksiński Profan racchiude in sé tutto quello che oggi sono e devono essere Kampfar per continuare a troneggiare sul suolo dell’underground. Anche la produzione, seppur ipercompressa, riesce ad innalzarsi facendoci ascoltare ogni singolo strumento e mantenendo intatto quell’odore di putrido disgusto creato da sempre nel dischi dei Norvegesi; il tempo che scorre non deturpa la pietra miliare delle gesta dei morti viventi. Probabilmente fra dieci o quindici anni parleremo di altri dischi, loro e non, che han segnato un periodo storico come quello che stiamo vivendo ma oggi, in questo momento, mentre state leggendo, Profan è la colonna sonora perfetta per oltrepassare i confini della perdizione.


Genere: Pagan Black Metal
Paese: Norvegia
Qualità: 320 kbps 

TRACKLIST

01. Gloria Ablaze
02. Profanum
03. Icons
04. Skavank
05. Daimon
06. Pole in the Ground
07. Tornekratt  

lunedì 15 febbraio 2016

Myrath - Legacy (2016)

I Myrath hanno trovato la perfetta quadratura del cerchio e con “Legacy” si preparano a fare il botto. Il quarto album della band tunisina arriva dopo un escalation di successi ottenuti in ogni parte del globo grazie al Symphonic Oriental Metal di “Tales Of The Sands” del 2011. Con il nuovo lavoro viene compiuto un ulteriore passo in avanti a livello di songwriting, mescolando alla perfezione metal melodico, orchestrazioni figlie delle terre d’Arabia e passaggi strumentali ultratecnici. Il disco è composto da dieci pietre preziose, canzoni ricche di pathos ed emozioni, vocals travolgenti ed eleganti passaggi ritmici, il tutto sempre perfettamente dosato e concentrato nei brani.
Il temine prog accostato al sound dei Myrath è da prendere assolutamente con le pinze. Non aspettatevi cambi di tempo improvvisi, sbrodolate strumentali e momenti cervellotici, perché in “Legacy” tutto scorre fluido e gli inserti etnici sono utilizzati in modo talmente naturale da sembrare parte del genere da sempre. L’opener “Believer” è un pezzo maturo e solare, tra litanie corali ed aperture melodiche, mentre “The Needle” propone un intro cinematico degno dei Rhapsody, per poi esplodere con un riff serrato di scuola Symphony X. I Myrath, rispetto al passato, riescono a diversificare splendidamente gli arrangiamenti, non solo avvalendosi dei tipici inserti arabeggianti, ma sbalordendoci con fughe pianistiche perfettamente incastonate a synth più moderni, come nella hit “Through Your Eyes”. Capolavoro assoluto di “Legacy” e già song dell’anno per il sottoscritto, il mid tempo sinfonico “Endure The Silence”, contraddistinto da un arrangiamento perfettamente bilanciato tra musica classica ed elementi mediorientali ed un ritornello praticamente perfetto, di classe nonché esplosivo.
I Myrath, ormai sdoganati nel mercato discografico internazionale, hanno confezionato il proprio capolavoro, un disco solido, originale nella propria classicità ed ovviamente inconfondibile nella propria impronta orientaleggiante. Il tour con i Symphony X, che passerà anche dalle nostre parti, darà la possibilità ai fan di apprezzare “Legacy” anche dal vivo, catapultandoci tra i profumi, i colori ed i sapori delle terre d’Oriente sulle note delle loro magnifiche canzoni.


Genere: Symphonic Oriental Metal
Paese: Tunisia
Qualità: 320 kbps


TRACKLIST

1. Jasmin (1:48)
2. Believer (4:32)
3. Get Your Freedom Back (3:57)
4. Nobody's Lives (5:43)
5. The Needle (5:06)
6. Through Your Eyes (5:37)
7. The Unburnt (4:36)
8. I Want To Die (4:39)
9. Duat (5:26)
10. Endure The Silence (4:44)
11. Storm Of Lies (4:35) 


 
 

mercoledì 10 febbraio 2016

Dream Theater - The Astonishing (2016)

E fanno tredici. Ogni volta sempre più complicato, nel compito – difficile – di superarsi. Obiettivo che può essere uno sprone ma allo stesso tempo un limite, perché focalizzandosi solo sul proprio mondo si rischia di diventare autoreferenziali fino al plagio di sé stessi, di perdere di vista ciò che gira intorno, che nel bene e nel male un po’ di carburante (per la mente) lo offre sempre.
John Petrucci è il regista dei DT, non sorprende quindi che sia stato lui a introdurre agli altri l’idea – e lo sviluppo – che sta alla base di The Astonishing, temerario concept che arriva quasi 17 anni dopo Metropolis Pt.2 – Scenes from a Memory – il precedente disco a soggetto – e si dipana su doppio CD tra fantasy, fantascienza distopica, gioco di ruolo. Tra le passioni del chitarrista, del resto, ci sono Star Wars, Game Of Thrones, Lord Of The Rings, Hunger Games, un bel frullato di fantastico degli ultimi 100 anni. Inevitabile che lo sfondo fosse archetipico, da medioevo prossimo venturo dettato da un tempo – siamo nel 2285 – e un continente americano dove il dispotico Lord Nafaryus, signore del Great Northern Empire Of The Americas, tiene sottomessa la popolazione anche grazie ai NOMAC, droni-controllori volanti di forma sferica che fanno minacciosa mostra di sé sulla copertina del disco. Macchine nate, i NOMAC, come risultato della ricerca per la generazione della musica perfetta, e diventati al contrario il simbolo dell’unico modo di intrattenimento privato di ogni umanità. A contrastarlo ci sono gli appartenenti alla Rebel Militia insediata nella città di Ravenskill, capeggiati da Arhys, convinto che il fratello Gabriel, che possiede il dono di creare musica, sia il predestinato capace di cambiare le sorti della storia del suo popolo.
Una storia intricata, ricca di risvolti e sfumature. Ma non è meno complessa la strategia che ha portato al giorno della release del disco, album che sarà reso disponibile in svariati formati (CD, vinile, edizione limitata): una parte del sito web della band dedicata al graduale disvelamento di personaggi, caratteri, geografia dei luoghi, video, e l’apertura delle iscrizioni alla newsletter che si rifà alle due fazioni. Con grafica adeguata, in stile simil-Assassin’s Creed.
Questa la base di partenza sulla quale si inseriscono i personaggi – heroes & villains – dell’una e dell’altra fazione che battagliano per la libertà o per affermare lo status quo. Sono state pensate perfino le mappe. Perché è esattamente così che John Petrucci l’ha studiata: ci ha messo quasi tre anni, tempistica che giustifica l’idea che The Astonishing superi lo stesso concetto di rock opera per divenire lo show estremo a tutto tondo, interdisciplinare e multimediale: realizzabile in forma di disco come primo assaggio, ma in seguito rappresentazione teatrale, probabile gioco, possibile film, magari libro e chissà che altro permetterà la tecnologia o gli investitori. Insomma, una grande macchina. Per stupire, per fare soldi, per soddisfare velleità artistiche: decidete voi, che siate dalla parte degli irriducibili disposti a perdonare tutto o stiate sulla sponda dei fan che, pur rimanendo fedeli, non hanno fatto a meno di notare le incrinature che negli anni hanno segnato il totem.
Non manca come sottotesto una riflessione sul mondo della musica. Prendendo spunto dalla odierna situazione che piaga il mondo del lavoro, nella quale le maestranze vengono sostituite da robot, Petrucci si domanda se un giorno la tecnologia demanderà alle macchine l’esecuzione della musica. E cosa ne deriverà. Domanda che rischia di ritorcersi contro chi la formula, perché laddove il chitarrista rivendica – parlando con Rolling Stone – di suonare insieme ai compagni vere chitarre, tastiere e batterie, è altresì vero che i Dream Theater sono spesso al centro di critiche che li vogliono musicisti tanto preparati tecnicamente quanto esageratamente attenti a una prestazione che rasenta la velocità, la perfezione, la complessità, ma anche la freddezza dell’esecuzione artificiale.
Chitarre, tastiere, batteria, con spolverate di cornamuse, violini, viole solisti. E una orchestra diretta da un David Campbell che nonostante le centinaia di registrazioni alle spalle, tra album di tutti i generi e colonne sonore, ha dichiarato che questo è il progetto più grande nel quale sia stato coinvolto. E c’è un coro. E ci sono i Dream Theater che si danno da fare a loro modo: pestando di brutto, alternando scambi tra solisti con la rapidità di uno scontro a fuoco, mettendo in vetrina oggetti preziosi e calando di pressione – e di interesse – con qualche ballata un po’ malferma.
Ci sono la grandeur con orchestra e coro in grande spolvero di Dystopian Overture, Brother, Can You Hear Me, Entr’acte; gli intricati intrecci strumentali di The Gift Of Music, A New Beginning, Moment Of Betrayal, The Path That Divides; episodi di collegamento meno ispirati come The Answer, Digital Discord e The Walking Shadow; brani che hanno tutto per diventare classici della band, per motivi differenti, come A Better Life, When Your Time Has Come, Chosen, The X Aspect; momenti teatrali perfetti per i live che verranno – dove metal e operetta si mischiano – come Lord Nafaryus e Three Days. E ancora la drammatica intensità di A Savior In The Square, A Tempting Offer, My Last Farewell; la mielosa Act Of Faythe che si riscatta con un finale “fantasmatico”; le gemme A Life Left Behind e Ravenskill; i rilevanti momenti di finta stasi costituiti da Heaven’s Cove, Begin Again, Losing Faythe, Hymn Of A Thousand Voices e quelli di reale pace espressi da Whispers On The Wind; l’epica romantica del dittico finale costituto da Our New World e Astonishing. E sparsi ad arte, nella tradizione dei Pink Floyd e di questo tipo di lavori, segmenti fatti di rumori ambientali di truppe in marcia, sibilare di malefiche macchine, voci, applausi, canti di uccelli, duellanti che incrociano le lame. Insomma, non manca nulla per soddisfare i fan della vecchia guardia, e magari conquistarne di nuovi, se avvezzi a questo tipo di suono, in cerca di emozioni forti sebbene scevre di sorpresa.
La vera notizia, guardando in ottica prog-metal, è che nonostante la durata quasi record del concept un solo brano supera i sette minuti e quasi tutti non raggiungono i cinque. In compenso ci sono 34 titoli che messi insieme fanno quasi un racconto breve. Il tour che porterà in giro il concept partirà a febbraio dall’Europa, con due date al leggendario Palladium di Londra. In Italia i DT saranno a Milano per tre date il 17-18-19 marzo 2016. Del tutto apprezzabile che abbiano scelto di esibirsi in teatro, l’ambiente ideale per proporre e godere uno show che promette di essere quanto mai ricco di trovate a effetto, trucchi, luci. Probabilmente il più complesso e ambizioso escogitato sin qui da John Petrucci. Sin qui, appunto…


Genere: Progressive Metal
Paese: USA
Qualità: 320 kbps 


TRACKLIST 

CD 1- Act I
 
01. Descent Of The NOMACS (01:10)
02. Dystopian Overture (04:50)
03. The Gift Of Music (04:08)
04. The Answer (01:52)
05. A Better Life (04:39)
06. Lord Nafaryus (03:28)
07. A Savior In The Square (04:13)
08. When Your Time Has Come (04:19)
09. Act Of Faythe (05:00)
10. Three Days (03:44)
11. The Hovering Sojourn (00:27)
12. Brother, Can You Hear Me? (05:11)
13. A Life Left Behind (05:49)
14. Ravenskill (06:01)
15. Chosen (04:31)
16. A Tempting Offer (04:19)
17. Digital Discord (00:47)
18. The X Aspect (04:13)
19. A New Beginning (07:41)
20. The Road To Revolution (03:35)


CD 2 - Act II

01. 2285 Entr'acte (02:20)
02. Moment Of Betrayal (06:11)
03. Heaven's Cove (04:19)
04. Begin Again (03:54)
05. The Path That Divides (05:09)
06. Machine Chatter (01:03)
07. The Walking Shadow (02:58)
08. My Last Farewell (03:44)
09. Losing Faythe (04:13)
10. Whispers On The Wind (01:37)
11. Hymn Of A Thousand Voices (03:38)
12. Our New World (04:12)
13. Power Down (01:25)
14. Astonishing (05:51)

 

lunedì 8 febbraio 2016

Seyminhol - The Wayward Son (2016)

L’idea di concept album (o “album a tema”) è stata storicamente figlia della voglia di contaminazione culturale degli autori della musica cosiddetta popolare, che cercavano di elevare la propria posizione nella scena da semplice prodotto commerciale a vera e propria opera, creando lavori con una struttura ben definita e diversa dalla semplice forma “canzone”, più vicina quindi alla forma “sinfonia”, intesa come insieme musicale composto da più “movimenti”.
In questo modo la sfida più importante era, ed è tuttora, quella di attirare l’attenzione dell’ascoltatore accorpando le idee in un unico “concept” nel quale poter esprimere compiutamente sia le proprie idee musicali, che eventualmente anche quelle politiche e sociali, a seconda dei casi, o più semplicemente una storia come L’Amleto di Sheakspeare.
Esempi di concept album si trovano nella discografia di numerosi artisti, da “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles a “The Wall” dei Pink Floyd passando per “Tommy” degli Who e “Pictures at an Exhibition” degli Emerson Lake e Palmer, e se il fatto di avere un tema concettuale sul quale sviluppare e raccontare una storia non richieda per forza un insieme di brani articolati, complessi e lunghi, spesso il risultato è sempre stato in questo senso e infatti uno dei generi che più ha utilizzato questa forma musicale è stato un certo tipo di rock progressivo, per esempio quello dei Dream Theater.
E qui arriviamo al disco dei Seyminhol, quartetto francese attivo dal 2005 con quattro dischi alle spalle e quest’ultimo lavoro intitolato “The Wayward Son” (Il Figlio Ribelle) in cui il “concetto” è l’opera shakespeariana “Amleto”, una dei lavori di drammaturgia più conosciuto e rappresentato al mondo e che racconta la tragedia di Amleto, principe di Danimarca, e delle sue vicissitudini familiari.
Il lavoro dei Seyminhol ha una stretta correlazione con l’Amleto originale e ne rappresenta una serie precisa di Scene e Atti, come potete leggere nei titoli dei brani. Il genere è decisamente progressive-rock/metal ed è composto da una serie di brani della durata di circa 4/5 minuti intervallati da parti più brevi che servono da intermezzo tra una scena e l’altra.
Raccontando una vera e propria storia, la prima vera parte cantata non poteva far altro che iniziare con un arpeggio lento su quale articolare il tema centrale della tragedia del principe, che poi si apre e sfocia nell’inno epico e maestoso di “The Spectre’s Confidence”. Dopo l’interludio del “The Oath of The Sword” si passa alla veloce introduzione di “Mantle of Madness” che con il suo riff coinvolgente fa entrare nel vivo della storia. Il brano è basato molto su sezioni di cassa alternate in ottavi e sedicesimi, con intermezzi epici conditi da cori e le parti orchestrali di Nicolas Pélissier che sottolineano e si intrecciano con le chitarre sempre di…Nicolas Pélissier! Sarà interessante dal vivo capire se ci saranno ad accompagnarli delle basi o un tastierista in carne ed ossa.
Altro interludio e si parte con “The Theatre of the Dream”, un mezzo tempo con una veloce introduzione dove il tema è suonato dalle parti orchestrali che si fanno più complesse, mentre la chitarra mantiene una funzione ritmica elementare fino a quando non entra la parte cantata, nella quale invece serve da supporto più importante alla sezione di basso e batteria. Più avanti, insieme al pianoforte, servirà invece da sostegno per la melodia del cantato. Un modo come un altro da chitarristi per non annoiarsi mai, compreso l’assolo a 3:45 che da un bel respiro a pieni polmoni a tutto il brano.
La veloce e variegata “Into The Black Chamber” non farebbe una brutta figura in qualche album di artisti del genere più famosi e offre nel coro femminile e nelle variazioni di tempo un punto di interesse. Le atmosfere epiche e cupe di “Shadows of Death” cristallizzano quello che dal titolo è un tema che riguarda la morte, anche se non capiamo cosa c’entri a 2:19 il doppio colpo di cassa e rullante Roland TR 808 (uno modello di batteria elettronica famoso fra chi produce dance), più che altro perché non gli viene dato seguito.
Per cercare di entrare meglio nel contesto del disco una delle cose da fare è quella di leggere i testi, che online non si trovano e sono il valore aggiunto del CD originale, anche se un’idea la possiamo avere dal “lyric video” di “Mantle of Madness”. Forse William Sheakspeare avrebbe qualcosa da ridire, ma non ci sentiamo di criticare troppo in questo senso vista la difficoltà per chi non è madrelingua di descrivere gli eventi della tragedia di Amleto, e mantenere una certa liricità dei testi. Sulla pronuncia invece il sottoscritto si lamenta sempre di come gli italiani cantino in inglese, questa volta occorre dire che anche i francesi non è che siano il massimo: sarà un problema per tutti i latini? Forse si. Però le nostre orecchie hanno comunque avuto un sussulto quando hanno sentito la rima della parola “mirror” con “terror” dove la seconda viene pronunciata come la prima, ma con la T davanti. Considerato che la rima funziona anche se le parole sono pronunciate correttamente, occorre una buona dose di pazienza e chiudere un occhio, o meglio un orecchio. Il concetto alla base del ragionamento è semplice: vuoi cantare? Studia canto. Vuoi cantare in inglese? Studia l’inglese. In questo caso ancora di più dato che per un disco del genere i testi fanno parte del “concept” dell’opera e non sono semplici articolazioni vocali create per dar fiato al cantante.
Tornando al disco, dopo la trascinante “The Conspiracy” dal riff centrale un po’ ruffiano, che alleggerisce così la tensione fornendo anche un punto d’aggancio mnemonico (importante nei lavori lunghi), e dopo l’interludio “Into The Cemetery” entriamo nella parte finale con “The Disguised Corpse” e “The Duellist” che trascinano verso l’epilogo della tragedia. Come andrà a finire? Probabilmente nel modo in cui è stato scritto l’originale.
Il disco di questo gruppo francese non è uno di quelli di facile ascolto iniziale. Di sicuro gli appassionati del genere progressive o epic non si spaventeranno della cosa e provvederanno ad approfondire con ascolti ripetuti. Alcuni brani potrebbero benissimo essere estrapolati dal contesto del concept e avere vita propria, su tutti “Mantle Of Madness” di cui potete vedere il video di seguito. Le composizioni sono ben articolate e non cascano spesso in facili cliché del genere, le orchestrazioni e le chitarre non sono mai noiose e, per finire, il suono complessivo del disco è uniforme e ben definito, nulla da invidiare a produzioni più famose secondo chi scrive.
Se siete amanti del genere ascolterete il disco dall’inizio alla fine, viceversa sarete interessati solo dai brani che superano i 3 minuti, otto sui diciannove che compongo il lavoro dei Seyminhol, “The Wayard Son”.


Genere: Symphonic Power Metal
Paese: Francia
Qualità: 320 kbps 

TRACKLIST
 01. A Night At Elseneur
02. Marcellus's Ascertaining
03. The Spectre's Confidence
04. The Oath Of The Sword
05. Mantle Of Madness
06. The Comedian's Parade
07. Theatre Of The Dream
08. The Agony Of A King
09. To Die, To Sleep
10. Into The Black Chamber
11. The Death Of Polonius
12. Shadows Of Death
13. Poem For A Maid
14. The Conspiracy
15. Into The Cemetery
16. A Disguised Corpse
17. The Great Hall Of The Castle
18. The Duellist
19. The Last March Of A Prince


venerdì 5 febbraio 2016

After Apocalypse - After Apocalypse (2015)

Difficile dire qualcosa di nuovo in un genere come il metal gotico dalle sfumature sinfoniche, troppe le band che la scena ha da offrire, anche se per un amante di queste sonorità la qualità delle proposte riamane mediamente alta, specialmente se si rivolge l’attenzione dentro i confini nazionali.
I bresciani After Apocalypse sono una giovane band che cerca di proporre qualcosa di nuovo, partendo da dove tutto è iniziato: i primi anni novanta e la scena olandese, quella dei primissimi The Gathering e Celestial Season.
Certo il doom gothic, priorità della scena di un ventennio fa, è addolcito dalla sempre presente componente sinfonica, ma il growl profondo e cavernoso ed il sempre presente clarinetto, rendono il sound del gruppo molto vicino alle atmosfere gotiche del tempo, lasciando le sonorità bombastiche ad altre realtà.
La voce della vocalist, di genere ma molto bella, fa il resto e After Apocalypse risulta cosi un buon lavoro, maturo e personale, anche se scritto da una band al primo passo nel mondo del gothic metal.
Il gruppo dosa bene dolcezza gotica e aggressività death, l’uso del clarinetto dona ai brani eleganza ed un tocco di originalità che non guasta e l’album scorre che è un piacere, tra momenti leggermente più sinfonici ed altri dove le chitarre si fanno sentire, ed escono estreme il giusto per accompagnare l’orco che dall’ombra duetta con la singer.
Ottime le trame ricamate dallo strumento classico in World Of Marzipan e Glorious Way, mentre in One Day le due voci creano l’effetto la bella e la bestia molto suggestivo, con le ritmiche che tengono un passo accelerato per uno dei motivi più interessanti dell’album.
White Page risulta più in linea con il symphonic odierno, anche se il clarinetto continua ad imperversare fino alla metà del brano, dove i ritmi si fanno marziali e pomposi, mentre Mechanical Mask, potente brano gothic, cede il passo alla conclusiva Sentence, brano dall’inizio cinematografico e dall’andamento più marcatamente potente e aggressivo nel suo incedere estremo.
In definitiva un bel debutto: consigliato agli amanti del genere, After Apocalypse è accompagnato da un’ottima produzione affidata al guru dell’Atomic Stuff Oscar Burato, come sempre nei studi dell’etichetta in quel di Isorella e, già di per sè,una garanzia di qualità. Senza dubbio, buona la prima.


Genere: Symphonic Metal
Paese: Italia
Qualità: 320 kbps
TRACKLIST
01. After Apocalypse
02. World of Marzipan
03. Dark Side
04. Glorious Way
05. Insight
06. Crying Moon
07. One Day
08. White Page
09. Mechanical Mask
10. Sentence

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giovedì 4 febbraio 2016

Mago de Oz - Finisterra Opera Rock (2015)

Utilizzando la stessa ricetta di “Celtic Land”, Txus e i suoi hanno deciso di festeggiare il quindicesimo anniversario di “Finisterra”, rilanciando lo storico album in una nuova veste, registrandolo ed arrangiandolo da capo, invitando amici e grandi nomi del panorama musicale spagnolo che, insieme alla band, hanno ridato vita ad uno degli album simbolo della carriera dei Mago De Oz.
La versione del 2000 di "Finisterra" si porta dietro due problematiche fondamentali: la prima sta nel fatto che è praticamente quasi impossibile ormai trovarlo nella sua forma fisica; la seconda riguarda la produzione, che di certo non era all’altezza dell’opera, e non dà giustizia a canzoni che rientrano in pieno nei capolavori del combo spagnolo. E’ ovvio che le atmosfere dell’originale non sono ripetibili, la line-up dei Mago, salvo la sua forza motrice (Txus, Moha, Frenk e Carlitos), è completamente cambiata e, soprattutto l’amato Josè Andrea, è stato sostituito, una cosa che mette di norma K.O. molti gruppi.

Non vi mentirò sul fatto che alcune finezze, alcuni acuti, e soprattutto il leggendario “Cabroneees!!!” di Josè manca molto, soprattutto per me che proprio con brani come “Satania”, “Fiesta Pagana” o “La Cruz De Santiago”, ho imparato a conoscere i folk-metallers ispanici. Fatte queste dovute premesse, “Finisterra Opera Rock” (questo è il nome dato al “reload” dell’album) è una delizia per le orecchie, non solo perché finalmente possiamo ascoltare i brani storici con quella potenza e bellezza dei suoni che mancava nel 2000, ma anche perché i Mago sono riusciti, da una parte a migliorare alcune asperità degli arrangiamenti originali, l’esperienza maturata nel tempo in questo senso è tastabile, tuttavia lo hanno fatto senza stravolgere più di tanto lo spirito dell’opera originale. Il lavoro corale creato insieme agli ospiti non dà poi il senso di un feticcio, che vuole in qualche modo cancellare ciò che è stato, ma è una vera e propria celebrazione di un momento basilare nella storia dei Mago De Oz. Ed infine l’interpretazione dei cantanti e ovviamente dello stesso Zeta, in alcuni frangenti è encomiabile, ascoltatevi ad esempio la struggente “Es Hora De Marchar”, cover dei Rainbow.

Cominciamo proprio con “Prologo”: la cornamusa questa volta è circondata da un’imponente orchestrazione, figlia degli arrangiamenti alla Nightwish, un po’ sulla scia dell’apertura del precedente album “Ilussia”.  Su “Satania” è stato tagliato qualche giro di violino per dar spazio ad uno degli assoli tecnici di basso da parte di Mainer, che nel contesto del brano fa tanto “Eagle Fly Free” degli Helloween. Suo sarà anche l’arpeggio di basso che va ad abbellire la sulfurea “Astaroth”, dove alla voce femminile troviamo Ailyn, cantante dei Sirenia. Su “La Cruz De Santiago”, il coro finale in up tempo dell’originale, è stato sostituito da una ritmica squisitamente power, forse meno personale è più standardizzata, ma l’impatto è devastante. Sia in questa che in “Satania” sono sono stati aggiunti cori gotici che pescano a piene mani dai nostrani Rhapsody (“Of Fire” e non). Se c’era una canzone che all’epoca consideravo minore, era lo scanzonato rock&blues di “Polla Dura No Cree En Dios”. L’aggiunta di una sessione di ottoni in pieno stile Blues Brothers, la rendono oggi davvero spassosa dall’inizio alla fine. “Kelpie”, la cover dei Jethro Tull, questa volta viene cantata dalla sempre in gamba Patricia, per il resto il brano rimane inalterato, così come rimane simile all’originale la delicata “Tres Tristes Tigres”, che però viene interpretata dalla splendida voce dell’ospite Diana Navarro (già sentita su “Gaia II”), che dona quel tocco poetico in più al pezzo. La soprano Pilar Jurado (già ospite su “Ilussia”) si prende la briga di riarrangiare in chiave operistica “Duerme…”, dando sfoggio a tutte le sue qualità di cantante lirica. I Mago De Oz decidono di riproporre “El Que Quiera Entender…” nella versione da anni suonata in sede live, quindi cestinando l’intro e l’outro dell’originale, ed incastrando l'indovinato passaggio reggae sulla seconda strofa. Senza nulla togliere all’impostazione classica dell’ex flautista Fernando, ammetto di apprezzare molto di più l’approccio di Josema Pizarro, in cui si sente un chiaro richiamo al progressive degli anni '70. Non a caso, proprio su “Kelpie”, ma anche nell’intermezzo latino-americano de “La Santa Compana”, mi ha ricordato molto quel pazzoide di Ian Anderson.

EPILOGO

Queste sono un po’ le maggiori differenze tra le due edizioni, quelle che saltano subito all’orecchio. Ma nell’album c’è molto di più, la stessa title-track incarna questa volta alla perfezione il senso di “Opera Rock”, sia nella sue parti più orchestrali, che in quelle più asciutte che si rifanno allo stile dei Savatage, o ancor meglio, vista la quantità dei musicisti coinvolti, alla Trans-Siberian Orchestra. Per quel che mi riguarda, da un punto di vista tecnico ed estetico non c’è niente da recriminare, e la qualità dei pezzi la conosciamo da tempo oramai. Visto il prezzo decisamente abbordabile, sopratutto se pensiamo che è un doppio cd, e vista la cura e le differenze musicali tra il vecchio ed il nuovo lavoro, che potrebbero solleticare anche chi ha già la versione originale di "Finisterra", mi sento di consigliarlo a tutti, ancor di più, ovvio, a chi ad oggi, non ha avuto occasione di far sua l'opera originale.


Genere: Heavy/Folk Metal
Paese: Spagna
Qualità: 320 kbps

TRACKLIST
Disc 1
1. Prólogo
2. Satania
3. La cruz de Santiago
4. La danza del fuego
5. Hasta que el cuerpo aguante
6. El señor de los gramillos
7. Polla dura no cree en Dios
8. Maite zaitut (Gwendal cover)
9. Duerme...
10. Es hora de marchar (Rainbow cover)

Disc 2
1. Fiesta pagana
2. El que quiera entender que entienda
3. Los renglones torcidos de Dios
4. La dama del amanecer (Kelpie) (Jethro Tull cover)
5. Tres tristes tigres
6. A costa da morte
7. La Santa Compaña
8. Conxuro
9. Astaroth
10. Finisterra
 
 
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